Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA &
ROBERTO COLONNA)
NOTE E NOTIZIE -
Anno XX – 06 maggio 2023.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia
del testo: BREVI INFORMAZIONI]
Come
l’esposizione fetale all’alcool causa disfunzione del sonno a onde lente. L’esposizione all’alcool etilico
prima della nascita danneggia i neuroni inibitori GABAergici importanti per la
genesi del sonno a onde lente (SWS). Wilson, Smiley, Saito
e colleghi hanno dimostrato che i neuroni corticali GABA-SST alterati dall’etanolo
sono responsabili della disfunzione del sonno SWS. Gli stessi autori hanno
rilevato, in un altro studio, la riduzione di numero dei neuroni corticali perdurante
nella vita adulta, da esposizione pre- e peri-natale all’alcool. [Cfr. Front
Neurosci. 17: 1127711, 2023; Front Neurosci. 17: 1186529, May 02,
2023].
La
vitamina D quale regolatore dello sviluppo dei neuroni dopaminergici. La vitamina D è un fattore chiave
nello sviluppo e nella differenziazione dei neuroni dopaminergici, e il suo deficit
è stato implicato nell’eziopatogenesi della schizofrenia. Renata Aparecida Nedel Pertile e
colleghi forniscono nuove prove di questo ruolo e dimostrano l’importanza della
vitamina D per l’accrescimento dei neuriti, per la loro ramificazione, per la
redistribuzione delle proteine presinaptiche, per la sintesi e il rilascio di
dopamina. Soprattutto, dimostrano per la prima volta che l’esposizione cronica
all’ormone della vitamina D incrementa lo sviluppo di neuroni che rilasciano
dopamina. [Cfr. Pertile R. A. N.,
et al. Journal of Neurochemistry – AOP doi: 10.1111/jnc.15829, 2023].
Malattia
di Parkinson con origine intestinale: il punto sulle conoscenze acquisite. Una dettagliata rassegna degli
studi basati sulla patogenesi gut-first del Parkinson è stata realizzata
a beneficio di neuroscienziati e neurologi che, rispettivamente, vogliano
indagare i meccanismi e migliorare la diagnosi. Sono presentati i due modelli
più indagati: 1) la propagazione trans-neuronica di fibrille preformate di α-sinucleina;
2) esposizione orale a tossine ambientali. [Cfr.
Videlock E. J., et al. Neurogastrenterology
and Motility – AOP doi: 10.1111/nmo.14604, 2023].
FLASH:
creata una capsula elettroceutica che regola la fame. Khalil Ramadi del NYU Tandon, Giovanni Traverso del MIT e colleghi hanno creato
il primo dispositivo elettronico ingeribile, la capsula elettroceutica
FLASH, per modificare il rilascio di ormoni gastroenterici – come la grelina
– che agiscono sul cervello. FLASH invia impulsi elettrici in grado di generare
fame nei pazienti affetti da anoressia neuropsichica o da ARFID (avoidant restrictive
food intake disorder), ma si può impiegare per
ottenere l’effetto opposto, ossia ridurre la fame nella bulimia e nell’obesità
da eccesso alimentare. [Cfr. Science Robotics 8 (77):
9676, 2023].
La
ferroptosi quale futuro bersaglio terapeutico delle
malattie demielinizzanti.
La ferroptosi è un tipo morte cellulare
programmata causata da eccesso di Fe endocellulare e squilibrio del sistema del
glutatione (GLH), con esito in una perossidazione
lipidica fatale. È diversa da necrosi, apoptosi, autofagia e altri processi che
terminano con la fine della cellula, e si è rivelata importante nella
neurodegenerazione di malattie demielinizzanti del SNC, come la sclerosi multipla
(MS), la neuromielite ottica (NMO), l’encefalomielite disseminata acuta (ADEM).
Una nuova rassegna ne analizza e descrive le specificità, evidenziando gli
aspetti salienti per eleggerla a nuovo bersaglio terapeutico. [Cfr.
Danqing Qin, et al. Journal of Neurochemistry – AOP doi:
10.1111/jnc.15831, 2023].
Gli
input inibitori maturano gli astrociti attraverso i GABABR gliali. La comunicazione tra neuroni e glia
ha un ruolo cruciale nello stabilire e mantenere le funzioni cerebrali
superiori. Studi recenti hanno dimostrato che l’attività eccitatoria dei
neuroni promuove la differenziazione degli oligodendrociti, ma se la
neurotrasmissione inibitoria promuova la morfogenesi degli astrociti non era
chiaro. Ora, Yi-Ting Cheng, Benjamin Deneen e colleghi hanno scoperto che l’attività inibitoria
neuronica è necessaria e sufficiente per promuovere la
morfogenesi degli astrociti. [Cfr. Cheng T-Y., et al. Nature – AOP doi: 10.1038/s41586-023-06010-x].
La
tendenza a condividere le emozioni positive compensa la negatività della solitudine. In contesti di avversità
condivisa, come quello della pandemia di COVID-19, o di solitudine dovuta a
ragioni individuali o sociali, la regolazione intrapsichica degli effetti delle
esperienze emozionali negative può essere facilitata dall’impegno affettivo nel
rapporto con gli altri, che consente la regolazione interpersonale delle
emozioni (IER) e dalla percezione individuale di social connectedness.
Il concetto di “connectedness” è bene illustrato come
sensazione di essere tutt’uno col proprio sé, con gli altri e con il mondo:
tre aspetti di uno stato mentale recentemente valutati da un nuovo test: la Watts
Connectedness Scale, proposta lo scorso anno da
Rosalind Watts (Psychopharmacol. 239 (11):
3461-3483 Nov., 2022).
Un
nuovo studio, condotto da Nicolas Harp e Maital Neta dimostra che, durante
l’esperienza di avversità comuni, la possibilità e la capacità di condividere gli
affetti espansivi e i sentimenti positivi può mitigare gli
effetti negativi per la salute della solitudine, anche attraverso la
percezione di connessione sociale (social connectedness)
con familiari, amici, conoscenti, vicini ed estranei. [Cfr.
Journal of Research in Personality – AOP doi: 10.1016/j.jrp.2022.104333, 2023].
Svelato
il segreto di Balto il cane leggendario che salvò i bambini dalla difterite in
Alaska.
Commosse il mondo nel 1925 l’eroico Balto, un cane da slitta la cui immagine
per cortometraggio fu diffusa nei cinque continenti e in fotografia fu
pubblicata dai giornali di tutto il mondo e rimane oggi visibile sul web:
consegnando il siero antidifterico nel gelo letale dell’Alaska, consentì di
salvare la vita a tanti bambini durante un’epidemia di difterite. Immortalato
in una statua del Central Park di New York, in un film di Steven Spielberg e
nel più recente Balto e Togo, la leggenda, del 2019, è stato imbalsamato
ed è esposto al Museo di Storia Naturale di Cleveland. A quasi cento anni di distanza
dall’impresa, lo studio del DNA ha dimostrato che Balto – così verosimilmente
anche i suoi parenti prossimi dell’epoca – era portatore di varianti geniche
che lo avevano reso straordinariamente resistente al congelamento e ai danni
biologici di quelle condizioni climatiche estreme. [Moon
K. L. et al. Comparative genomics of Balto, a famous
historic dog, captures lost diversity of 1920s sled dogs. Science 380 (6643): 28
April 2023].
Dal
nostro seminario sull’Arte del Vivere una provocazione per le menti
sensibili. Nella
sua origine etimologica latina, il verbo provocare aveva valore
semantico di “spingere verso l’alto”; proprio in questa accezione positiva
intendiamo proporre la nostra provocazione.
La
riflessione in seno al nostro seminario sull’Arte del Vivere, questa settimana
ci ha condotti allo studio delle figure del mondo, dove per figura
si intende una rappresentazione a metà tra immagine e concetto. È
in realtà una figura, in quanto linguaggio figurato, quella del mondo
descritto come libro, usata da Galileo Galilei per la natura, che per
lui è un libro scritto in lingua matematica (Il Saggiatore, 1623); ma da
Blumenberg in poi (La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della
natura, 1984) si parla di metafora, spesso applicando le categorie
di Davidson, e giungendo al terzo millennio con Formenti (Incantati dalla
rete, 2000) che propone quale metafora del reale il sublime tecnologico,
aprendo alle analisi di corto respiro degli anni recenti e del presente
filosofico, con cui siamo in rapporti tangenziali.
Ma
alle nostre coscienze è parso evidente che ormai, da almeno quarant’anni, il pensiero
descrive e, raramente e stancamente, interpreta. Senza convinzione si imita
e magari, quelli che vogliono farsi notare, personalizzano un po’ lo scialbo “prodotto”
che confezionano secondo le regole del mercato delle idee.
Non
mancano coloro che agiscono, basta affacciarsi pochi minuti sui social media
per cogliere una moltitudine di gente che scambia, riverbera, rilancia e
amplifica banalità o “prodotti confezionati”, ossia pensieri già pensati e ridotti
in format che si possono facilmente scambiare, senza sciuparsi il
cervello in fatiche cognitive fuori moda. Per non parlare dell’esercito globale
di venditori e acquirenti che in rete non riposa mai.
È
vero che siamo lontani dall’epoca in cui l’ispirazione faceva dire alle menti
geniali: “La natura si studia, il mondo si crea!”, ma è pur vero che anche le
menti “pensanti” oggi sembrano aver assunto lo stile degli spettatori e, a
quanto pare, non mancano soltanto di significativi contenuti di idee e di
strumenti logici per esprimerli e realizzarli, mancano anche dello spirito,
della volontà, della progettualità e della capacità per essere veri autori
di realtà.
Ecco
la nostra provocazione: il nostro tempo manca di soggetti. Ma cos’è il
soggetto? Secondo la filosofia greca è ciò che costituisce l’impalcatura della persona,
l’upokeimenon, la struttura che sta sotto e
regge il senso, affidabile per solidità e coerenza, caratterizzata dal rimanere
costante al passare del tempo, al mutare delle circostanze e delle occasioni,
costituendo il senso dell’identità. [BM&L-Italia,
maggio 2023].
Attis
e Cibele: miti di follia, amori impossibili, castrazioni e morti. I medici dell’antica Grecia
condividevano con i colleghi egizi la convinzione che le manifestazioni di follia
fossero da ricondurre a malattie del cervello e, anche se per spiegare le varie
forme di disturbi psichici la medicina ippocratica tirava in ballo altri organi
del corpo, quali cuore, fegato e timo, la natura di affezione organica non era
messa in discussione. Tuttavia, nella cultura greca si conserva la possibilità eziologica
parallela della volontà degli dei di far impazzire qualcuno. In assenza di
smentite documentali, e accettando come prova le trame dei miti, si assume che i
Romani abbiano ereditato dai Greci anche questa duplice origine della pazzia.
Le
versioni del mito della dea frigia Cibele, la Grande Madre, e di Attis, il giovane
da lei amato, sono così numerose da aver scoraggiato la definizione di un
elenco completo, ma in tutte le trame tradotte e accessibili si riconoscono tre
elementi cruciali: la follia, la castrazione e la morte.
La
più antica tradizione frigia prende le mosse da una divinità arcaica ermafrodita,
chiamata Agdistis, che fu evirata da altri dei
divenendo donna e assumendo il nome di Cibele. La sua identificazione greca con
la madre di Zeus, personificazione della Madre Terra, assunta poi dai Romani,
ha fatto dimenticare che nel mito frigio si trattava di un ermafrodito
castrato, dunque, nella realtà che ha preceduto il mito, si trattava verosimilmente
di una persona omosessuale evirata per questa ragione, secondo l’uso arcaico
della Frigia, regione nordoccidentale dell’Asia Minore. Cibele si innamora del
giovane Attis, ma nessuna versione del mito spiega in modo argomentato perché
Attis non ricambi l’amore; in qualche caso si legge che Attis non se ne
accorge, in altri che non lo viene a sapere, in altri ancora si dice solo che
non ricambia.
Attis,
quale persona reale, era semplicemente un uomo e, in quanto tale, non
ricambiava il sentimento di Cibele o Agdistis castrato.
Questa deduzione è avvalorata dalle versioni del mito che narrano delle
profferte erotiche ad Attis da parte di un re che, vedendosi respinto, lo fece evirare.
Le versioni più seguite del mito, ossia quelle rielaborate dai poeti latini,
rappresentano Cibele come donna innamorata non ricambiata. In una di queste,
Attis è promesso sposo della figlia del re di Pessino,
e Cibele, che è provvista del potere degli dei di fare impazzire gli uomini,
per punire il giovane che non ricambia il suo amore, lo rende folle al punto di
evirarsi e morire per la ferita auto-inferta. In un’altra versione del mito,
Cibele è una semi-dea con poteri taumaturgici, protettrice di bambini e animali
selvatici; innamoratasi di Attis, lo fa suo sacerdote, obbligandolo al voto di
castità. Incontrata la bella Sagaritis, ninfa del
fiume, Attis ne è attratto e giace con lei; allora Cibele per punirlo lo fa
impazzire, spingendolo a castrarsi e a morire per la ferita.
Alla
vista di Attis morto, Cibele impazzisce a sua volta e, dopo di allora, vagherà
per i boschi – o secondo altre versioni per la città – suonando un tamburo e
gemendo in un canto per l’amato perduto.
In
ogni caso, si possono riconoscere due poli psicologici di impossibilità
nella costruzione delle trame: l’amore impossibile, per la barriera sessuale,
e l’autocastrazione, impossibile in quanto atto innaturale contro l’istinto
erotico e vitale. A fare da ponte fra queste due impossibilità vi è la follia
indotta come maleficio, ossia come potere che supera i limiti dell’umano entro
cui si colloca l’impossibilità, quale vincolo alle leggi di natura. Il
desiderio di Cibele, nella sua realizzazione, si trova preso fra l’impossibile
e la castrazione, e non ha altro luogo possibile se non quello della follia,
intesa non come patologia, ma come perdita di senno, di ragione, di
appartenenza alle regole del senso naturale alla base del consesso umano. [BM&L-Italia, maggio 2023].
La mente medievale alle origini del
mentale moderno e contemporaneo (XV) è una tematica che stiamo sviluppando al Seminario sull’Arte
del Vivere (v. Note e Notizie 21-01-23 Notule; Note e Notizie 28-01-23 Notule; Note
e Notizie 04-02-23 Notule; Note e Notizie 11-02-23 Notule; Note e Notizie 18-02-23
Notule; Note e Notizie 25-02-23 Notule; Note e Notizie 04-03-23 Notule; Note e
Notizie 11-03-23; Note e Notizie 18-03-23 Notule; Note e Notizie 25-03-23
Notule; Note e Notizie 01-04-23 Notule; Note e Notizie 15-04-23; Note e Notizie
22-04-23; Note e Notizie 29-04-23) per spunti settimanali di riflessione e discussione:
qui di seguito si riportano quelli del quindicesimo incontro.
All’incontro della scorsa settimana si sono offerti alla
riflessione alcuni aspetti della concezione dell’uomo e della realtà del
sostrato barbaro gotico e franco dei popoli nordeuropei, riflessi nelle leggi
dei loro codici, e se ne è dedotta l’influenza su un immaginario collettivo che,
nell’Alto Medioevo soprattutto, doveva essere ben differente da quello dei popoli
italici, che avevano integrato l’etica giudaico-cristiana su un sostrato di civiltà
greco-romana, naturalmente con tutti i limiti, le eccezioni e le incompiutezze
documentate dalla storia, e con la complicazione data da invasioni, occupazioni,
migrazioni, commistioni e sintesi culturali de facto.
E abbiamo proposto questa sintesi, traendola dalla
relazione del nostro presidente: “Semplificando in un modo forse eccessivamente
schematico ma necessario alla chiarezza, si può dire che la coscienza prevalentemente
barbara era alle prese con l’equilibrio tra violenza e interesse, mentre la coscienza
pervasa da sentimenti e principi della civiltà dell’amore elevava lo spirito
alla ricerca di un’armonia tra etica ed estetica”[1]. E questa
caratterizzazione deve essere stata particolarmente vera fino al X-XI secolo,
se è vero quanto afferma Jacques Le Goff, ossia che nel XII secolo il pensiero
medievale in Europa aveva raggiunto un alto livello di equilibrio tra fede e ragione[2].
In questo incontro proviamo a fare ancora qualche
passo nel percorso di conoscenza dei popoli nordeuropei medievali. Leggendo dei
frammenti epistolari di una fanciulla presumibilmente borghese toscana, che si
dichiara di antica famiglia romana, si apprende di un’avversione repulsiva per
i giovani barbari anche se valorosi, intesa come un sentimento condiviso che
non ha bisogno di motivazioni, perché sembra appartenere alla sensibilità
comune.
Molti appartenenti a tribù germaniche non si
lavavano e trascuravano volutamente il proprio aspetto, per assomigliare agli
animali che eleggevano a modello. È noto che, al contrario, nell’Italia romana la
cura dell’igiene personale era tra i doveri del buon cittadino; le donne,
soprattutto le matrone, facevano uso di un articolato strumentario cosmetico
con cere, ciprie, creme e profumi custoditi in variopinti recipienti di vetro
colorato[3]. In
epoca cristiana, anche gli uomini si profumavano il capo durante i digiuni, per
seguire il precetto del Signore, affinché il sacrificio non apparisse agli occhi
degli uomini, ma solo alla conoscenza di Dio.
Ma, per comprendere la repulsione della fanciulla, è
illuminante questo passo di Michel Rouche: “La
ripugnanza che i Romani avvertivano nei confronti dei Barbari non derivava solo
dal fatto che questi, come i Burgundi per esempio, si ungevano i capelli di
burro rancido e puzzavano di aglio e di cipolla, ma anche dal loro «vestirsi di
pellicce» che agli occhi dei Romani rappresentava un indiscutibile segno di
selvatichezza”[4]. Si può
anche aggiungere che, adottando i Barbari metodi grossolani per la concia delle
pellicce[5], conservavano
il lezzo tipico di ciascun animale.
La questione non è solo di aspetto e di olfatto, ma
attiene a una dimensione antropologica del Barbaro che vale la pena approfondire.
Come vedremo più avanti, il rapporto con gli animali
delle popolazioni mitteleuropee preromane porterà a quella pratica forense tanto
sui generis quanto frequente e tipica del Medioevo, consistente nell’intentare
cause contro esemplari della fauna locale. Come molti popoli primitivi, i
progenitori dei membri delle tribù gotiche altomedievali avevano attribuito
valore magico-divino ad alcuni animali; poi, a questa epoca di sapore arcaico, erano
seguiti i secoli di conversione guerriera di questi popoli, durante i quali gli
animali considerati forti, potenti, aggressivi o invincibili erano ammirati,
imitati o, talvolta, invidiati. La pratica venatoria con falconi, sparvieri e
altri rapaci ha questa origine. I Franchi, si legge, a imitazione di Burgundi e
altri Goti, credendo all’esistenza di uno spirito animale e avendo fede nel
potere del nome, quale parte della credenza superstiziosa nella magia delle
parole, creavano il nome da dare al proprio figlio dalla combinazione di due parole
che dovevano veicolare lo spirito dell’animale e la virtù ammirata dai genitori
del bambino. Così, ad esempio, nasce da “orso forte”, ossia Bern-hard, il
nome Bernardo; da “corvo lucente”, cioè Bert-chramm,
viene il nome Bertrando; dalla capacità di marciare a lungo dei lupi, deriva “che
marcia come un lupo”, ovvero Wolf-gang, Volfango.
Persa nei secoli questa credenza nello spirito
animale e nel potere di trasferire i caratteri al bambino con il nome, rimane
presso gli eredi dei Gallo-Romani come tradizione la creazione di nomi
derivati, in questo caso, da una parola latina e una del sostrato franco-gotico:
Magnulfo, viene da magnus
wolf, cioè “grande lupo”. In Francia tra il VI e
VII secolo si diffonde la moda di battezzare con nomi germanici di animali: “…mentre
nel VI secolo soltanto il 17 percento dei vescovi aveva un nome germanico, nel
VII secolo i responsabili di diocesi che hanno adottato tale moda sono già il
67 percento”[6].
Non si tratta di una semplice voga, ma di un indice
che coglie l’intreccio di tre fenomeni: il diffondersi dell’aggressività come
valore, l’assunzione del costume barbaro di cacciatori emuli degli animali in
rapporto conflittuale con loro e, infine, l’affermarsi dei caratteri
antropologici di sostrato in seno alle gerarchie ecclesiali. E dai documenti
emerge che “…stando all’esame delle ripetute condanne dei cicli merovingi e carolingi
contro i membri del clero che portano le armi e cacciano con cani e falconi,
bisogna concludere che l’arte di uccidere era diventata una passione divorante
che colpiva proprio quelli che avrebbero dovuto essere soltanto pastori di
anime”[7].
Mentre il cristianesimo sembra acquisire maggiore
profondità nelle coscienze dei membri del clero in terra francese, i costumi
barbari germanici, e particolarmente la caccia, si affermano e si diffondono
sempre più, tanto da provocare le invettive dell’arcivescovo Giona d’Orleans
contro coloro che amano tanto la pratica venatoria da non farsi scrupolo di
togliere la terra a poveri contadini per farne riserve di caccia: “Per uccidere
delle bestie che nessuno ha mai allevato, i potenti spossessano i poveri”[8].
Gli autori delle cronache dell’epoca non mancavano
di cogliere gli aspetti positivi di questa passione venatoria associata a
ferocia aggressiva: “Durante l’assedio di Parigi, ad opera dei Vichinghi, nell’885,
alcuni difensori tenevano uno sparviero presso di loro, proprio come oggi si porta
appresso un fazzoletto, e fu proprio il vescovo della città, Gozlin, il combattente più coraggioso; il meglio equipaggiato
di corazza ed elmo e spada, con la quale menava colpi mortali ai pagani”[9].
Nelle terre italiche la caccia col falcone arriverà
portata da questi popoli, e nei secoli seguenti diventerà un costume diffuso in
tutta la penisola. Il De arte venandi cum avibus è illustrato alla seconda pagina da un ritratto
del suo autore: Federico II di Svevia in trono con un falcone[10]. Quest’opera
è emblematica dell’approdo consolidato del costume venatorio germanico nel
nostro paese, perché l’Imperatore del Sacro Romano Impero era Italiano, nato a
Jesi, nelle Marche[11].
Si è già accennato alla curiosa questione dei
processi agli animali, tanto frequenti nel Medioevo. Si è fatto risalire l’inizio
di questo bizzarro costume giuridico all’articolo 36 della Legge Salica –
codice di cui si è parlato nell’incontro precedente – che impone al
proprietario di un quadrupede domestico che abbia ucciso un uomo di corrispondere
ai familiari della vittima la metà della quota stabilita in caso di omicidio.
Ma, in realtà, la comprensione di questo fenomeno chiama in causa l’antropologia
germanica e il suo immaginario magico, che conferisce alla presunta anima occulta
della bestia, nella sua dimensione di “spirito dal potere distruttivo detentore
di un’oscura violenza”, la dignità di soggetto imputabile. In altri termini, il
principio generale mai messo in dubbio da nessuna delle civiltà del Bacino del
Mediterraneo nemmeno agli albori del nomos, ossia che solo i soggetti
umani sono imputabili, veniva calpestato, lasciando entrare nel diritto l’irrazionalità
di suggestioni tramandate attraverso un’aneddotica orale e atteggiamenti
superstiziosi. Discutendo l’argomento, Michel Rouche
propone questa interpretazione: “Non si tratta solo di provare che il colpevole
è un animale per evitare che il sospetto ricada su di un uomo: questo sarebbe
un ragionamento dettato dal buon senso tipico dei nostri tempi. Il problema è
invece di sentirsi uomo e animale, allo stesso tempo complici e artefici di un
identico istinto di morte”[12].
A noi, invece, non sfugge un aspetto che ci sembra
molto significativo in termini di influenza del pensiero primitivo sulla
razionalità pubblica del tempo: il processo penale di un animale è un grossolano
artificio implicante l’elevazione della bestia a soggetto giuridico, cui si prestano
le parti in causa e gli amministratori stessi della giustizia, rimandando a un’implicita
credenza comune che, pur evidente nella sua irrazionalità, non rimane confinata
alla sfera personale ma invade la coscienza collettiva.
Con la diffusione della moda degli indumenti di
pelliccia, si diffondono inizialmente anche le idee barbare connesse, che poi sopravviveranno
come superstizioni. L’indumento che ebbe maggior fortuna in Europa, forse per
la possibilità di nasconderlo alla vista, fu il gilet di pelliccia: “Lo
portava qualsiasi contadino, in inverno, e lo portava anche Carlomagno ma «col
pelo in dentro»: particolare significativo messo in luce da Robert Derlort. Perché è vero che lo scopo è quello di
introiettare le caratteristiche positive dell’animale, ma correre il rischio di
rassomigliargli portando il vello all’esterno, non espone al pericolo di vedersi
improvvisamente posseduto dalla bestia stessa? Questa paura di essere
ricacciati al livello bestiale, ci testimonia come sostanzialmente quel modo di
vestire mirava solo ad acquisire le qualità della bestia e la sua arte di
uccidere”[13].
Concludendo le riflessioni avviate nell’incontro
precedente, è stato osservato che la storiografia cui attingono molti testi
scolastici italiani ha fatto coincidere la stasi involutiva medievale con la fede
cristiana dei popoli europei, trascurando gli effetti del processo di
imbarbarimento, andato avanti per secoli, che ha cancellato gli approdi della
ragione civile della cultura greco-romana, facendo regredire le coscienze al
valore della violenza bestiale, contaminando anche la cultura cristiana e dando
origine a quella contraddizione stridente degli ordini cavallereschi, ossia di
religiosi che predicavano l’amore portando la spada al fianco. [BM&L-Italia,
maggio 2023].
Notule
BM&L-06 maggio 2023
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Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale
94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Giuseppe Perrella, Relazione sulla
Mente Medievale al XIV incontro, p. 3, BM&L-Italia 2023.
[2] Cfr. Jacques Le Goff, Il
Medioevo – Alle origini dell’identità europea, p. 83, Editori Laterza,
Roma-Bari 2002.
[3] Sono esemplari quelli ritrovati
a Pompei e portati in esposizione con mostre itineranti in giro per il mondo.
[4] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale in La vita privata dall’Impero romano all’anno
Mille (a cura di Philippe Ariès & Georges Duby) p. 372, CDE (su licenza G. Laterza e figli) Milano
1986.
[5] Oggi si impiegano, tra l’altro,
numerosi lavaggi chimici per la trasformazione della parte non villosa in
cuoio.
[6] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., p. 371.
[7] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., p. 372.
[8] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., idem.
[9] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., ibidem.
[10] La versione più estesa, anche se
si ritiene non compiuta, è un manoscritto in sei libri conservato alla Biblioteca
Universitaria di Bologna; il manoscritto più noto, in esposizione alla
Biblioteca Vaticana (c. Pal. lat.
1071), si ferma ai primi due libri, in cui si descrivono e si classificano le specie
aviarie e poi si parla della migrazione, ma contiene più di 500 disegni di
uccelli.
[11] Federico II duca di Svevia o Federico
Ruggero di Hohenstaufen (1194-1250), Re di Sicilia, Re dei Romani, Re di
Gerusalemme e Imperatore del Sacro Romano Impero era nato a Jesi, cosa che oggi
sfugge alla maggioranza, perché non insegnata a scuola, mentre la pervasività
dell’informazione mediatica fa si che tutti sappiano che a Jesi sono nati il CT
della Nazionale di calcio Roberto Mancini e la campionessa della scherma
Valentina Vezzali.
[12] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., p. 372.
[13] Michel Rouche,
L’Alto Medioevo occidentale, op. cit., p. 373.